Marta Patak
Márta Patak – traduzione ad arte
Eduardo Rodà
Conobbi Márta, nella
seconda metá degli anni ’70, la nostra è stata da sempre un’amicizia
epistolare, senza mai incontrarsi di persona. Da ungherese, parla benissimo l’italiano, praticandolo nei
suoi soggiorni in Italia e per il suo lavoro di traduttrice.
In quei anni, si soleva scrivere e gli altri mezzi di comunicazione come
il telefono, erano un lusso,. I media sociali, apparirono più tardi, con
cambiamenti radicali nel modo di comunicare con e tra le persone.
La famosa Olivetti, con la quale feci la stesura delle mie due tesi
d’arte, mi accompagna ancora adesso, ma solamente come oggetto dal design
essenziale.
La mia Waterman pen, nera ricordo e regalo di papà non scrive più,
oggetto da collezione. La carta per scrivere, patinata, bianca con le buste dal
risvolto colore oro e il simbolo schematico dell’aereo, per via aerea, solo un
ricordo.
Allora non si aveva paura di sprecare il tempo, si prendeva il tempo
per fare le cose e scrivere. Oggi, tutto è rapido, nello scrivere come nella
vita, tutto è sulla falsariga di un
fast food, da consumare nel più breve dei tempi; scrivere con cadenza e ritmo
veloce, soprattutto essere brevi; abbreviazioni, punteggiature che non esistono, maiuscole
superate, minuscule maiuscole e viceversa.
In tutto questo s’inserisce il lavoro dello scrittore per vocazione e
il lavoro straordinario dei traduttori d’ altre lingue., tale lavoro, implica
alla base, lunghe ore di pratica e di rilettura. Ho sempre ammirato queste
persone, tra le altre mia cugina Ana, che fa un lavoro eccellente, in francese
ed inglese; capaci di afferrare nelle sottigliezze di significato, nelle
sfumature delle lingue madri, quei momenti essenziali e precisi del discorso.
Esiste un parallelo tra la grafia e il disegno, in entrambi si è mossi dall’istinto d’esprimere, tra gesto
preciso, essenziale e grafia delle lettere, probabilmente alla ricerca d’un attualità e una contemporaneità da dolce stil nuovo. Molto spesso, quando
pensiamo scrittura, mentalmente visualizziamo dei caratteri tra il barocco ed
il rococò, gli
scrivani di un tempo, erano maestri nell’arte dello scrivere.
Per rivenire a Márta e per questa prima parte di questo numero estivo, propongo,
alcuni suoi testi inediti, tradotti dall’ungherese all’italiano. In questo
primo anniversario del mio blog: Pagine Parole Arte, Le consegno le pagine bianche, la penna simbolicamente, per poi
apprezzarne il tradotto, attraverso brevi racconti da leggere in queste lunghe
e principalmente calme giornate d’estate.
Márta Patak
Nata nel 1960 a
Kaposvár (Ungheria), abita a Leányfalu, scrittrice, traduttrice e editrice di
Patak Könyvek (Libri Patak), società unipersonale che
pubblica principalmente letteratura spagnola del Novecento.
Traduce dall’italiano, dallo spagnolo e dal greco
moderno all’ungherese, tra l’altro ha tradotto una quarantina di romanzi
spagnoli all’ungherese. I suoi racconti sono stati pubblicati su riviste
letterarie ungheresi, come: su Élet és
Irodalom (Vita e Letteratura), Forrás,
Életünk, Jelenkor, ecc. Il suo primo romanzo, dal titolo A test mindent tud
(„Il corpo sa tutto”) è pronto per essere pubblicato.
PRIMA PARTE
Liebe Heimat
Nel corso del Settecento e del l’Ottocento diverse comunità di lingua e
cultura tedesca migrarono nei territori dell’Ungheria spopolata per effetto
della dominazione turca e delle successive guerre e vi si insediarono.
Dopo la seconda guerra mondiale queste comunità, ed in genere tutti
coloro che in occasione dell’ultimo censo si erano dichiarati oriundi tedeschi
o la cui madrelingua risultava essere quella tedesca furono espulsi da quei
territori. Si calcola che tra gli anni 1946 e 1948 il governo ungherese privò
dalla sua cittadinanza almeno 185 mila nativi di origine sveva e li
rimpatriò nella Germania in rovine del dopoguerra.
«I più andarono via da soli, senza essere forzati. Alcuni
però vollero rimanere, e per quelli ci volle la forza per mandarli via quattro anni
dopo» – disse l’uomo spianando con la mano la tovaglietta ricamata stesa sul
tavolo; poi lasciò cadere le mani nodose sul grembo e mi guardò negli occhi a
lungo, come se aspettasse da me la continuazione della storia o almeno un segno
di solidarietà, o magari una forma di riconoscimento, in quanto le trentuno
famiglie che restarono delle trecentocinque originarie tennero comunque in vita
la comunità, la parrochia, la scuola, mantennero invariato anche il nome del
paese, ed anzi, molto prima del cambio del regime, ottennero di poterlo
scrivere anche in tedesco sulla piastra che segnala l’inizio e la fine del
paese.
Non era tanto importante che dicessi o facessi qualcosa,
sarebbe stato sufficiente un gesto qualsiasi per fargli vedere che capivo
quello che mi stava spiegando – e io certamente capivo, anch’io ho studiato
storia, quindi so che nell’autunno del quarantuno gli svevi cominciarono a
prendere il via, ognuno come poteva, portando con sé quella poca roba che
entrava nel proprio carro o in quello del vicino.
L’uomo non distolse lo sguardo da me nemmeno per un
momento, ma i suoi occhi si velarono; cosa usuale nei vecchi, quando ricordano
qualcosa di bello o di doloroso, oppure semplicemente quando un pensiero
improvviso gli passa per la testa e fa si che all’improvviso gli spuntino le
lagrime negli occhi, senza nemmeno rendersene conto. L’uomo non disse nulla,
teneva ancora sul grembo le sue mani nodose in un atteggiamento di attesa, il
suo palmo destro fece una leggera mossa come per precedere il successivo gesto
della mano con il quale accompagnava di solito il discorso, per dare maggiore
enfasi; ed anzi tutte le volte che le parole lo tradivano quel gesto gli
appariva un mezzo espressivo più sicuro, fa lo stesso cosa intendesse
esprimere, rassegnazione o enfasi. L’importante per lui era che lo sguardo
dell’interlocutore esprimesse interesse, che l’interlocutore dimostrasse
chiaramente la sua attenzione, assumendosi in questo modo parte del fardello di
ciò che gli veniva raccontato; anche se non era possibile trasferire quel peso
per intero, si poteva almeno sperare di condividerne un po’, così come il
Cireneo che portò la croce di Gesù; come se il peso del fardello possa ridursi
con l’ascolto. Ma tutto ciò è un vano sperare, la verità è che la sofferenza
non svanisce; al contrario rimane intensa come quando la si prova da giovani, o
diviene addirittura più forte; sembra quasi che quest’uomo, ormai giunto alla
sua vecchiaia, debba raccontare a qualsiasi sconosciuto, proprio per non
lasciarsi cadere sotto il peso dei ricordi.
Avrebbe certamente voluto essere ascoltato anche dalla
propria moglie, ed anzi erano anni che tentava di raccontarle cos’era successo;
ma ogni volta che accennava quel suo gesto della mano nodosa, che sempre
precedeva la parola, la moglie si faceva da parte, distoglieva lo sguardo da
lui e rivolgeva la sua attenzione al latte che bolliva sul fornello a gas,
oppure andava a tendere la biancheria perché non si
sgualcisse, oppure ancora proprio in quel momento passava l’autobus della mattina
davanti casa e su quello lei aggiustava l’orologio, o doveva mettere sul fuoco
la zuppa; insomma c’era sempre qualcosa da fare che sviava la sua attenzione
proprio quando lui era sul punto di raccontare, forse per la prima volta nella
sua vita. Ma se nemmeno la moglie aveva la pazienza per ascoltarlo, con chi
altro avrebbe potuto parlare? Con un conterraneo forse? No, con gli svevi non
si sa mai, non si fidava di loro. É cresciuto tra di loro, ma ha imparato da
suo padre che è meglio tacere se gli si domanda perché loro non
sono confinati, come mai loro potettero
restare mentre la maggioranza dovette andar via. Il fronte si era fermato qui,
non lontano dal paese, i tedeschi si stavano ritirando e i vicini chisero a sua
nonna come mai loro non li avessero seguiti.
L’uomo si rese conto del mio silenzio e forse sentiva di
dover parlare ancora; certo adesso uno di noi due doveva pur dire qualcosa, un
tale silenzio non poteva durare oltre, e poi dopo tanti anni non è giusto
contiunare a tacere, qualcuno deve finalmente dire apertamente che fu un errore
restare qui, e che avrebbero dovuto andar via. Anzi, non dovevano nascere qua,
in questo paese cieco andato in malora dal quale nessuna strada conduce fuori;
come se la storia li avesse dimenticati qua, come se il paese li avesse spinti
fuori dal suo corpo, quasi come una spina è spinta fuori da una ferita
purulenta.
«Dopo, nel quarantotto, perché mai mio
padre doveva dichiararsi tedesco?»
disse l’uomo alla fine, guardandomi di nuovo con gli occhi soffusi di
ancor più grande tristezza. Io continuavo a tacere, aspettando in muto silenzio
che gli si sciogliesse la lingua e mi raccontasse qualcosa: come cominciò, cosa
successe in realtà, perché mai restarono
qua quando duecentoquarantatre famiglie dovettero andar via; ma l’uomo si
mangiò la continuazione, fece un gesto di rassegnazione, cominciò a piegare
l’orlo della tovaglietta, non disse nient’altro, non raccontò che quell’anno,
il giorno dell’Epifania, caricarono sui vagoni bestiame quelle
duecentoquarantatre famiglie sveve insieme agli svevi dei due paesi vicini, e
li avviarono verso la Bavaria da dove erano venuti i loro antenati al richiamo
della donna sovrana per stabilirsi nel territorio.
Maria hilfunt bittet beuch Got fürmih – cercai
di leggiucchiare impotente l’iscrizione ricamata sulla tovaglietta; mi sembrava
che vi fosse ricamato un nastro con su scritto qualcosa del genere, con due
angeli che lo sostentavano, ma non riuscivo a decifrarlo esattamente perché l’uomo sgualciva il fino tessuto bianco
con le dita e copriva l’iscrizione con una mano. Ma nemmeno m’interessava
troppo quello che c’era scritto; fissavo piuttosto la mano dell’uomo, quelle
piccole cicatrici dappertutto lungo il metacarpo, una mano forte, nodosa, come
chi l’usava molto nella vita, una tipica tuta blu che stringeva forte il
piccone, mica da scherzare!; adesso era lì seduto davanti a me con le sue mani
forti e nodose, con quel gesto di rassegnazione, quella tristezza bruciata e
inguaribile sempre negli occhi, intento a piegare quella tovaglietta che
implorava la Vergine, ricamato da sua nonna ancora zitella e rimasto appeso
alla parete tra la finestra e la stufa da così tanti anni che lui se lo
ricordava li fin da quando era bambino; quei due angeli ricamati in blu, che
tendevano le mani sopra una colomba di filo d’oro, e che nemmeno si osava
fissarli troppo a lungo, per timore che sotto il peso dello sguardo, quella
colomba potesse volar via dalle loro mani.
Non dissi nulla, cosa potevo dire. Guardavo fisso quelle
mani nodose e piene di cicatrici, come se contemplassi il nulla; ma intanto
davanti ai miei occhi ballava l’iscrizione con due date, 1754 e 1998, che avevo
visto poco prima durante la visita ad una piccola cappella, dove una bandiera
azzurro-bianca annunciava: Besiedlung Ungardeutschen Versöhnung.
Tradotto
da: Márta Patak e
Roberto
Miccoli
Morte sotto
l’ippocastano
Due
enormi occhi castani e accusatori, questa era la vecchia, nient’altro. La
signora Cecilia,
conosciuta
da tutti in quanto passeggiva su e giù per il paese tutto il giorno, con in
mano una
borsa
tessuta in filo rosso che portava quasi sempre vuota. I suoi occhi ardevano
come due
braci
nel mezzo del suo volto allampanato e sdentato, sopratutto quando maldiceva
qualcuno
per
non essersi fermato a chiacchierare con lei. Era inverno o estate, andava
sempre vestita di
nero;
soltanto in autunno indossava un giubbotto in maglia, con le maniche piegate,
stirato per
l’uso,
sfilacciato nei gomiti, il cui colore di un tempo doveva essere blu, ma era
ormai
talmente
scolorito, vuoi per il passare degli anni o per il lerciume, che era diventato
difficile
definirne
il colore originale. La signora Cecilia camminava barcollando leggermente,
forse
perché
era sempre pronta a fermare qualcuno: le era rimasto il movimento, quella mezza
svolta
del corpo per trattenere il passante troppo frettoloso che cercava di
sfuggirle, di andar
via
presto, perché se la signora Cecilia riusciva a fermarlo, si sentiva costretto
a parlare con
lei;
nessuno voleva offenderla. Dimodoché la conoscevano tutti, sapevano tutti che
era un po’
pazza,
lo era già da giovane, per qualche disperato amore si diceva, ma nessuno
ricordava
esattamente
i particolari. Si manteneva con una misera pensione, qualche volte le si
offriva
una
zuppa di fagioli all’osteria o, quando in inverno si macellava e gli odori le
lanciavano il
loro
richiamo, le si offriva un po’ di carne fritta, salsiccia o sanguinaccio. La
signora Cecilia
era
parte inseparabile dell’immagine del paese, come la Vergine o la statua di san
Vendelino.
La
notte dell’uccisione della signora Cecilia – in realtà non era un’ora molto
tarda, potevano
essere
le dieci, ma certo, a metà d’ottobre a quell’ora non c’è già più nessuno per
strada, a fare
cosa
poi?, l’osteria era già chiusa – un’autocisterna dei pompieri attraversava il
paese a sirene
spiegate
e tutti i cani le ululavano dietro, giusto nel momento in cui l’oste chiudeva i
battenti e
apponeva
il catenaccio. In quel momento sembrava quasi che cominciasse ad ululare anche
la
Luna,
forse a causa dello sconosciuto che avrebbe ucciso la signora nel primo cortile
della sua
casa.
Nel secondo cortile, dietro il cancello abbaiava impazzito anche il cane Fifi,
cosa
nient’affatto
sorprendente dato che era un foxterrier, una razza molto ringhiosa, e la
signora
Cecilia
lo teneva legato, dunque l’animale a volte passava la notte intera facendo
chiasso. A
ben
vedere, tutti i cani passarono quell’intera notte ululando. Gli abitanti del
paese non se ne
meravigliarono
più di tanto, sapevano che nelle notti di luna piena i cani fanno sempre così,
uno
comincia e tutti gli altri lo seguono. Solo quelli che hanno il sonno leggero,
si
svegliavano
ogni tanto per il lamentoso ululare dei cani.
Lo
sconosciuto che uccise la signora Cecilia si fermò per caso davanti alla casa
della vecchia.
Forse
un gatto gli attraversò la strada, e lui, accompagnandone l’ombra con lo
sguardo, lo
vide
oltrepassare la cunetta e sparire oltre il cancello aperto – Fifi stava appunto
tentando di
rompere
la catena per poterlo inseguire – ; quindi si accorse della vecchia
addormentata sotto
l’enorme
ippocastano nel mezzo del primo cortile, con la testa riversa all’indietro e la
bocca
aperta;
forse russava anche. Era a metà d’ottobre, una notte abbastanza fresca, ma lei
dormiva
fuori
casa, su un panchetto. Sembrava una preda facile. In realtà lo straniero non
voleva nulla
da
lei, ma nel momento in cui le vide il collo, gli venne voglia di strangolarla.
Era un giovane,
gli
venne voglia di provare come si fa a strangolare con le mani una vecchia sotto
un
ippocastano.
Titolo originale:
Gyilkosság a gesztenyefa alatt
Tradotto da:
Marta Patak e Roberto Miccoli
Mia madre, la notte buia fitta
(Titolo originale:
Anyám fekete éj)
A Indu
Mai avevo paura della notte: per quanto buia fosse, ero sempre sicura
di trovarti davanti alla finestra. Alzata dal letto brancolavo alla cieca come
un sonnambulo, con le mani allungate palpavo gli oggetti e sentivo che ogni
passo mi avvicinava a te; quella sensazione mi tranquillizzava tanto da farmi
addirittura dimenticare il versetto che tenevo riservato come una sorta di
scongiuro in caso di estremo pericolo, qualora tu non fossi arrivata o io non
fossi stata capace di trovare la mia strada verso di te. Quella notte invece, come
se fossi uscita dal mio stesso corpo e mi fossi collocata in un angolo della
stanza, vidi me stessa in una camicia da notte bianca a fiori; allora cominciai
a recitare il versetto: Rantiratarinba,
chedechirachimva, totirabocumba, undecalorumba. E mano a mano che mi
avvicinavo, recitavo a voce sempre più alta per sconfiggere la paura, quasi
sollevandomi da terra; e quando giunsi vicino a quell’altra, che ero io, fino a
poterla toccare, lei prese la mia mano, ed io cominciai a dimerare l’altro
braccio. Recitavo già quasi urlando come una pazza, in realtà muta, senza voce,
eppure a squarciagola, come se fossi in preda a un moto di riso che non riesco
a fermare, e rido di tutto ciò che mi dicono, non importa cosa; ma io ero sola,
e con la testa rovesciata recitavo gridando …undecalorumba. Ma non avevo mai paura della notte, rare volte
dovetti riccorre al versetto perché tu eri tutte le notti davanti alla
finestra.
Chiudo gli occhi e comincio a recitare il versetto. Tre volte lo
recito, mentre mi volto da un lato all’altro. Lo recito ritmicamente, staccando
le sillabe e nel frattempo vedo la mia immagine avvicinarsi come in una visione
a moviola. Così come quando ero bambina, nella mia camicia da notte bianca a
fiori, sento sulla gamba lo struscio della balza che orla la leggera stoffa di
battista, che sempre mi solleticava un po’ sul lato della gamba quando
allungavo il piede. Ora quello struscio mi da sicurezza, tutto è esattamente come quando
tu stavi davanti alla finestra in fondo al corridoio, dove adesso io devo
andare. Recito il versetto dentro di me; dopo tanto tempo non è mica necessario
recitarlo davvero, mi basta sentire il palpitare del suo ritmo dentro di me.
Lentamente e con difficoltà cerco di rimettermi in piedi. Per prima cosa mi
giro cautamente per arrivare al bordo del letto, là mi appoggio, mi raddrizzo
poco a poco e poi con i piedi cerco le pantofole sotto il letto, infilo dentro
i piedi, quindi cerco tastando al buio anche il mio deambulatore.
Non voglio che entri l’infermiera di turno. Mi
sono decisa ad uscire, succeda quel che succeda, se no per me questa è la fine.
L’unica sicurezza che mi è rimasta è quella di svegliarmi ogni notte alle due e
un quarto precise. Non mi alzo subito, a volte passano anche un’ora e mezza o
due, e mi viene in mente ogni cosa, m’immagino come sarà il momento in cui mi
alzo in piedi e mi avvio con il deambulatore verso il lavabo; alla fine non
esco fino alle quattro. A tale ora nella maggioranza dei casi penso a te. Non
so da quanto dura, quando è cominciato, ma sento come se fosse stato sempre così;
nemmeno mi ricordo com’era quando non era così, che ti vedevo ogni notte
davanti alla finestra in eterna attesa; dopo qualche tempo non dovevo nemmeno
immaginarti, tu eri li con la tua presenza palpabile finchè riuscivo ad
arrivare alla fine del corridoio e ad aprire la porta. Nel momento in cui
uscivo eri sempre lì. Ora non
mi raggiungi più, e nemmeno io ti raggiungo più, come facevo da
bambina, quando dopo essermi alzata toccavo il bracciolo della poltrona vicino
al letto per orientare il mio passo verso di te, e tastando al
buio trovavo la tua cintura tra le mie mani.
Non voglio che entri l’infermiera di turno. Eppure lei verrebbe volentieri,
soprattutto quella carina; bèh, anche l’altra è carina, „E il nostro dovere,
timbri pure e vengo”, lo dicono sempre, ma io non voglio che mi aiutino. La mia
è l’ultima stanza del piano, si sveglierebbero tutte perché le infermiere del turno di notte non sanno
camminare senza far rumore; molte volte mi domando perché mai la loro andatura è così rumorosa, come se
volessero annunciare da lontano che vengono, tacchettando-picchiettando nelle
loro ciabatte. Molte volte nell’incontrarsi si mettono anche a parlare ad alta
voce, senza rendersi conto che nel silenzio della notte le voci sembrano più
forti che di giorno, loro invece nemmeno si sforzano di far capire alle altre
quello che vogliono. Ma non lo dico per lamentarmi, in fin dei conti sono
amabili; se le chiamassi, verrebbero per aiutare a levarmi. „Perciò siamo qua!”,
dicono sempre; ed io accenno: „Certo, certo!”
Sono le due e venti. Resto in ascolto, a lungo. Non voglio ancora
alzarmi. Mi dondolo nel mio versetto e all’improvviso tra i versi si sente una
risata, mi vedo con la testa rovesciata, il nastro a pallini nelle due trecce si
solleva ed io mi metto a correre sul prato pieno di fiori. Un prato di
rosolacci. Ci sono anche dei fiordalisi. Fiordalisi, sì. Ne raccolgo un
rametto. I rosolacci no, mi spiace perché gli cadano troppo presto i petali, già nel cammino verso casa;
arriverei a casa con gli steli cilindrici e nient’altro. Sto in mezzo al prato
con il mio rametto di fiordalisi blu. L’avvicino al naso per inspirarne l’odore.
Sono le due e venti. Resto in ascolto. Come se ti sentissi cantare; una
vecchia melodia, non ne capisco le parole, ma potrei canticchiarla insieme a te.
La intono pure a mezza voce. Parla di una donna, una vecchia ballata, lei
aspetta il marito che viene dal mare. Ogni sera si apposta nel porto per vedere
le navi, ma non arriva quella che aspetta. Aspetta per lunghi anni, nella
speranza. Alla fine un bel giorno la nave appare lontano, molto lontano, ma lei
ne riconosce il ronzio anche a quella distanza; per poco non le salta il cuore talmente
è grande la sua emozione, mentre s’immagina come sarà rivedere l’uomo amato
dopo tanti anni di assenza. La nave accosta, ma il finale è ben diverso:
nessuno di quelli che erano partiti tempo addietro fa ritorno, eccetto il
pilota, unico sopravvissuto, tutti gli altri si son persi nella bufera; anche
lui fu ritrovato mezzo morto e forse è sopravvissuto soltanto per poter
raccontare quello che è successo. Questo è quanto canta il pilota, le donne
piangono, l’una sulla spalla dell’altra, e il pilota sta davanti a loro e alla
fine dice: „Dunque, signore, eccomi qua, pronunciate il vostro giudizio su di
me, punitemi anche se la vita stessa mi ha punito col dover vivere, gettatemi a
sorte oppure cacciatemi via per sempre sul mare”.
Tu canticchi questa vecchia ballata e io recito il mio versetto mentre
mi sto preparando; la melodia offusca il mio versetto e nel frattempo io sono
cresciuta, ti visito ormai da sposata e mi spiace di non poter stare sempre
accanto a te. ’E già da molto che mio padre è morto, ma tu stai sempre davanti
alla finestra e l’aspetti come tanto tempo fa; i tuoi figli sono andati via da
te, non devi aver paura che li svegli il rumore del temporale o le voci troppo
alte. Cammino brancolando verso di te, ti chiedo da bere perché ho sete come tanto tempo fa; so dov’è la caraffa,
l’acqua fresca, ma aspetto finché
me la porti tu perché questo è un ricordo
a me molto caro; ti allontani dalla finestra verso l’acqua, sollevi il velo di
tullo sopra la caraffa in argilla, versi l’acqua dalla caraffa nel bicchiere,
ti volti verso di me e mi porti l’acqua fresca; è un momento quasi
interminabile, e quando arrivi da me sei diventata una vecchietta raggrinzita
dalla spina curva, invano ti parlo, nemmeno mi vedi, mi sorpassi con il
bicchiere in mano come se non ti accorgessi di me o non riconoscessi tua figlia
adulta, forse perché cerchi ancora
quella bambina nella cui treccia infilavi ogni mattina il nastro a farfalla. Mi
sorpassi come se non stessi là, senza accorgerti di me. Forse nemmeno ci sono, non
mi vedi, invano ti guardo, invano ti parlerei, tu non mi potresti sentire perché la mia voce non arriva fin dove tu
cammini; così entro silenziosa in cucina per aggiustare i contrappesi che pendono
dal velo di tullo che copre la bocca della caraffa.
’E molto lungo il cammino verso l’uscita. Rantiratarinba,
chedechirachimva, totirabocumba, undecalorumba, forse l’ho recitato cento volte l’ho recitato
dentro di me, non le ho contate, ma sin dal momento in cui ho tirato la
pantofola da sotto il letto col piede destro, non conto nemmeno i miei passi,
faccio solo attenzione di aggiustare il deambulatore davanti a me in armonia
coi miei passi, lo muovo appena per poterne seguire il ritmo. In realtà non
faccio attenzione neanche a questo, non ho bisogno di guardarlo perché già sento istintivamente dove arriva il
mio passo; così tutto il tempo volgo il mio sguardo verso di te, mentre stai
davanti alla finestra e guardi lontano, più in là del vetro, scruti la notte,
come quella donna del porto scruta l’orizzonte per vedere quando finalmente
spunta la nave.
Non è il ritorno, è la gioia del viaggio di andata a farmi vivere,
vederti sempre là davanti alla finestra. Come spiegare tutto questo all’infermiera
di turno? Cosa potrei dirle quando al mattino mi riprende un’altra volta perché non l’ho chiamata; lei è qui per quello,
per aiutarmi, e se viene mio figlio o mia nuora, si sfoga anche con loro perché io non le permetto di aiutarmi, e anzi
voglio uscire da sola. Come spiegarle che questo è il mio vero tempo, quello in
cui ti posso incontrare. Perché
mi sto avvicinando a te, lo sento, là dove tu stai, fuori la notte buia fitta,
ma tu mi aspetti davanti alla finestra, madre.
©Márta Patak tutti
i diritti riservati
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