Marta Patak
Márta Patak – traduzione ad arte
Eduardo Rodà
SECONDA PARTE
L’estate passa in fretta, cosi come
il tempo delle vacanze e delle letture. Ci prepariamo ai ritagli di tempo in
ordine sparso. Gli spunti non diminuiscono e come mi ero proposto, continuo con la seconda parte di brevi racconti inediti, tradotti da Márta Patak e
Roberto Miccoli, ai quali va il mio plauso, per la disponibilità tutta intera.
Breve Biografia
Márta Patak
Nata nel 1960 a
Kaposvár (Ungheria), abita a Leányfalu, scrittrice, traduttrice e editrice di
Patak Könyvek (Libri Patak), società unipersonale che
pubblica principalmente letteratura spagnola del Novecento.
Traduce dall’italiano, dallo spagnolo e dal greco
moderno all’ungherese, tra l’altro ha tradotto una quarantina di romanzi
spagnoli all’ungherese. I suoi racconti sono stati pubblicati su riviste
letterarie ungheresi, come: su Élet és
Irodalom (Vita e Letteratura), Forrás,
Életünk, Jelenkor, ecc. Il suo primo romanzo, dal titolo A test mindent tud
(„Il corpo sa tutto”) è pronto per essere pubblicato.
Márta Patak
Una pietra piatta di vetro di colore blu inchiostro
(Titolo originale: Tintakék, lapos üvegkő)
Muoveva una pietra dandole piccoli colpi co
Guardava in basso, verso la pietra che giaceva davanti alla punta delle scarpe; aveva lo stesso identico colore dell’inchiostro, quando dopo avere scosso la boccetta mezza piena ne ammirava per lunghi minuti la colata blu sulle pareti. La pietra era di diverse sfumature di blu, come l’inchiostro che lui vedeva in controluce muoversi denso sulle pareti di vetro della bocchetta, mentre la agitava. Ed era anche piatta, come il globo terrestre quale lo si rappresentava molto tempo fa, all’epoca del Rinascimento, secondo l’immagine riportata nel suo libro di storia naturale. La scalciava o meglio, la muoveva a colpetti, come fa il centravanti sul campo, quando sta per smarcarsi in sovrapposizione, capisce il piano di gioco e sta in attesa il passaggio; sa che si trova in buona posizione, distaccherà in velocità il centrocampista che vorrà tagliare, e porterà a termine l’azione con sicurezza come se tenesse lui stesso il pallone. Oppure come quando con un movimento simile dribbla il terzino laterale destro, passa il pallone sull’ altro piede e si avvia verso la porta sul lato opposto. A questo stava pensando.
I suoi movimenti erano trattenuti; dopo aver dato un colpetto alla pietra, subito tirava indietro il piede perché essa non andasse troppo oltre, per evitare che qualcuno si rendesse conto di cosa stava combinando. Adesso sua madre non lo sorvegliava più, o meglio, era concentrata solamente nel non mollare la presa nemmeno per un instante, nel tenere stretta con forza costante la mano del ragazzino; o magari non lo sentiva affatto, perché in quella immobilità la mano si era intorpidita.
Sarebbe davvero bello se la potessi calciare in alto come un pallone, per poi riprenderla in aria, riflettava tra sé il ragazzino. Ma no, ora è meglio continuare così, almeno la posso muovere a colpetti. Adesso si avvia lungo la fascia laterale destra, un passaggio con il piede sinistro, un dribbling, un altro ancora, e poi ancora lungo la fascia laterale destra, un dribbling, un altro ed ecco, rete! Per poco gli si illuminò il viso nel momento in cui s’immaginava la scena davanti all’area di rigore, ma prima che apparisse il sorriso sul suo viso, chinò lo sguardo ancora in più basso, come chi si rende conto che qua e adesso non può esserci nessun sorriso.
Il più delle volte praticava insieme a suo padre. Era lui ad insistire per farlo allenare anche fuori scuola. Il calcio era la sua passione, seguiva tutti gli incontri importanti della sua squadra favorita; se non arrivava in tempo a casa li faceva registrare; diceva che non gli piaceva vedere la partita ritrasmessa a pezzi due ore dopo insieme alle altre che non lo interessavano, lui doveva vederla appena arrivato a casa, non aveva la pazienza di aspettare. In genere era lui a portarlo agli allenamenti, raramente sua madre. Stava ai bordi del campo, si vedeva che gli era difficile trattenersi dal fare commenti alle spiegazioni dell’allenatore; a volte proprio non ci riusciva, specialmente quando si trattava di lui oppure era lui ad avere il pallone; in quei casi spiegava a voce alta cosa e come doveva fare; l’allenatore invece mentre fischiava il ritmo dello slalom, lanciava sguardi torvi verso la barriera verde che delimitava il campo, alla quale il padre era solito appoggiarsi.
Adesso il ragazzino era sul punto di tentare. Tenne premuto sulla pietra il bordo della suola, cercando di calcolare verso dove sarebbe volata e se in alto abbastanza da poterla pigliare. Basterebbe una piccola sciabolata per poterla afferrare, rifletteva il bambino. Ma invece non osò rischiare. Aveva paura che in caso di errore nella parabola del volo, sarebbe finita contro il feretro o sul pastore o sul candeliere o sulla parete oppure, cosa ancora peggiore, dopo un rimbalzo sulla parete si sarebbe persa per sempre. Era cosciente che una volta perduta di vista, non avrebbe pututo mettersi a cercarla.
Era una specie di pietra magica, dentro di essa lui ci teneva la sua forza, come il reuccio delle fiabe. Bastava mettere la mano in tasca e toccarla un po’ ed ecco, sentiva subito di trarne la forza magica. Solo la teneva in mano quando nessuno lo vedeva, evitando in questa maniera i „cos’è questo?”, „a cosa ti serve?”, e altre domande del genere oppure, ancora peggio, che a qualcuno venisse in mente di scroccargliela. Gli piaceva tenerla verso la luce e vedere attraverso di essa il sole o il punto giallobianco della lampada a incandescenza. Ci fu solo un momento in cui si spaventò, il momento in cui quella pietra gli cadde di mano. La teneva in tasca, con la mano sopra, sin dal momento in cui si erano usciti da casa, e durante tutto il percorso; nemmeno uscendo dalla macchina si tolse la mano dalla tasca. Fu all’ingresso del cimitero, quando sua madre gli ringhiò di darle la mano senza lasciargli il tempo di reagire, che dovette trarre di tasca anche l’altra mano che stringeva la pietra, altrimenti avrebbe perso l’equilibrio nel movimento repentino in cui la madre si era lanciata insieme a lui. Avrebbe voluto aggiustarsi i pantaloni con la mano per la quale lo teneva sua madre, ma lei lo trascinava così forte che lui riusciva a stento a tenere il passo. Siccome la presa sulla mano sinistra non si allentava, dovette portare subito la destra verso i pantaloni che gli stavano cadendo, per evitare che gli finissero sulle ginocchia, perché gliene compravano sembre di due taglie più grandi del dovuto, affinché non gli diventassero piccoli troppo presto. Mentre facevano la strada fino alla camera ardente, si stringeva i pantaloni addosso insieme alla pietra con la mano destra, fino al momento in cui il pastore cominciò a parlare accanto a lui e poi venne intonato il salmo, ed una parte del corteo funebre si unì al canto con una voce titubante. Fu allora che per lo spavento gli cadde di mano, ma per fortuna non scorse via lontano, dovette soltanto allungare un po’ la gamba destra per portarla con cautela davanti a sé.
Non gli sarebbe dispiaciuto se il pastore avesse smesso di parlare, si annoiava un sacco, avrebbe voluto vedere il feretro già calato nella fossa, con la terra spalata sopra e alla fine una tomba al posto della fossa. Non riusciva a immaginare come si potesse calare quel bel feretro in una fossa, con quelle grosse corde. Ora sta scintillando, che peccato, pensò, ma un peccato ancora più grande è che lì dentro c’è suo padre. Vedere non l’ho visto, ma me l’hanno detto. Hanno detto tutti che sarà sepolto. Conosceva altra gente a scuola a cui era morto qualcuno, che poi era stato anche sepolto.
Le guardò la mano; avrebbe dovuto mollare la presa solo un po’. La madre aveva le dita ormai completamente esangui. Stringeva la sua mano con tale forza da non sentire la propria. Il ragazzino non riusciva a capire fino a che punto finiva la sua e dove cominciava la mano di sua madre. Il braccio cominciava a formicolare. Pian piano tentò un movimento, ma niente, proprio non mollava la presa. Indolente fissò lo sguardo sulla pietra e pensò a come era diventata strana su quel pavimento scuro. A stento si poteva capirne il colore. Come se non fosse blu inchiostro. Pensò magari che bastasse allungare il braccio per poterla pigliare senza doversi inchinare, rimanendo in piedi lì dov’era.
Nel momento in cui il pastore e il cantore intonarono di nuovo il canto L'ora attesa alfin verrà che vittoria ti darà, il ragazzino sussultò di nuovo, ma non fece scattare la mano, la tenne moscia accanto al suo fianco, mentre l’altra la sentiva appena. Volentieri avrebbe sgridato la madre, per quanto gli faceva male la stretta, ma non osò farlo; volentieri si sarebbe inclinato per prendere la pietra, ma non poteva; volentieri sarebbe andato all’allenamento accompagnato da suo padre perché era proprio quello il giorno, ma suo padre stava steso dentro il feretro e anche lui doveva stare qua perché sua madre lo aveva portato con sé. E poco dopo già non pensava più a niente, voleva soltanto la sua pietra, nient’altro, correre lontano con la sua pietra, forse fino alla fine del mondo e sedersi là sotto un albero per guardare da là come si poteva stare dentro quel feretro quando la terra gli veniva spalata sopra, e senza poterne mai uscire.
Come se il braccio gli venisse strappato dal corpo, così fu lo strattone improvviso della madre quando si lanciò dietro al feretro. Gli spuntarono le lacrime negli occhi per quanto gli facevano male la stretta e lo strattone insieme. Non osò gridarle che si fermasse perché lui potesse ritornare a raccogliere la pietra, infatti quando se ne rese conto, si era già messa in movimento l’intera sala e lui, trascinato in avanti da sua madre, sentiva di non poter fare nulla, di doverla seguire senza poter tornare indietro, per via di quei passi rimbombanti che li inseguivano, come se tutta quella gente vestita di nero spingesse lui e sua madre dietro il feretro.
Pensò che non appena la madre avesse mollato la presa, sarebbe tornato correndo alla camera ardente per raccogliere la sua pietra. Sin dal momento in cui il corteo si mise in moto seguendo la macchina grigia colma di corone prestò tutta l’attenzione possibile al percorso, per poter ricordare che strada fare per non perdersi nel caso avesse dovuto tornare fuggendo di casa durante la notte.
Tradotto da:
Márta Patak e
Roberto Miccoli
Márta Patak
Addio per due voci e mezza
(Titolo originale: Búcsú két és fél hangra)
Una e mezza
Lanciando guaiti come un cane che non è capace di
comprendere cosa gli succede e sente solo che gli fa molto male partire con una
bella sgroppata, poi trottare sul selciato mugolando fino al crocevia, quindi voltare
a destra per la discesa dove la mattina giaceva il cadavere sanguinante del
gatto investito, aggiungo accelerazione al movimento d’inerzia, avverto il
rimbombare dei miei passi in corsa che risuonano tra i muri di cinta e l’abside
della cattedrale, lungo la strada spopolata dove ogni cosa amplifica la musica
dei piedi che battono il selciato, bang-bang, bang-bang, bang-bang; contralto
in sordina oppure campanata muta, io in nessun modo potrei fare un simile rumore,
come se tutte le campane suonassero all’unisono, eppure mi piacerebbe se questo
suono mi rincorresse, sempre più tenue quanto più scendo a rotta di collo fino
alla piazzetta dove mi fermo; a ogni quarto passo espiro a fondo, molto a
fondo, espiro quasi anche l’aria residua che non mi dovrebbe uscire dai polmoni
fino all’esalazione dell’ultimo respiro; sto camminando, attraverso il ponte sul
fiume, compresso tra i muri di cimento, sto salendo le scale tortuose che
conducono all’antico quartiere ebraico senza sentire i miei passi; mi sono già
abituata, non faccio abbastanza rumore per poterli sentire, vado con me, eccomi
quì, non son rimasta indietro, invano taccio, forse se cominciassi a cantare ad
alta voce come facevo alcune ore prima nella galleria della via verde dove una
volta passavano i binari, canterei a squarciagola nel silenzio dei vicoli
deserti quella serenata, ehì, gente, su, venite, eccomi qua, vado di qua,
potrei additare me stessa: guardate eccola, la pazza perseguitata, i piedi le
vanno verso l’alto, sarebbe anche capace di andare su per le roccia, se vedesse
nel buio salirebbe sino alla cima per guardare giù e per sbattergli in faccia
ah, fottuto mondo! –
Buio. Buio il cielo. Immagine fissa sulla finestra
luminosa. M’immagino il portiere che si prepara per il calcio di rigore. Prende
posizione, con la mano inguantata si batte alcune volte i palmi e rimane
immobile, non rende l’immagine sfocata. Sono tanto lontano da non poter vedere
nettamente i tratti del volto, ma sento che si concentra molto, osserva
l’espressione del giocatore che sta posizionando il pallone e poi gli fissa i
piedi. D’ora in poi non pensa con la testa cosa succederà, invece tutte le fibbre
dei suoi muscoli, da capo a piedi, montano in guardia per questo momento,
privando il cervello del suo ruolo. Si tuffa insieme al pallone in moto. Non
posso vedere se lo para o no, non lo voglio nemmeno sapere, neppure voglio sentirlo,
perché
se lo potessi sentire, allora certo saprei anche che si é tuffato in direzione
opposta.
Un edificio nuovo davanti al cimitero, sembra un
obitorio oppure una sala di autopsia, c’è una luce azzurra dentro, vedo davanti
ai miei occhi, qualcuno giace là disteso, forse proprio io, su un tavolo di
marmo bianco, e stanno esaminando cosa lo ha fatto fuori; mi si è fermato il
cuore, niente di speciale, fibrillazione atriale, blocco improvviso, un po’
lungo, non c’era nessuno accanto a me per rianimarmi, tutto d’un tratto, mi
fermo, guardo la piastra, un’iscrizione appare su un padiglione multiuso, a
cosa servirà un padiglione multiuso davanti al cimitero, se non è l’obitorio
allora cos’è, ma non ho tempo, devo seguire per la via dell’antica prigione,
per il vicolo del magnate, per il vicolo del mattatore dei cani, per il vicolo
dei cechi, sotto la piastrella della calle
del Brujo, per la via della strega maschia, ci sono anche uomini streghe,
eccone la prova, la calle del Brujo,
appena prima del crocevia, della via del calvario e la morte della
crocefissione, di qua, ecco ed ecco il parapetto più alto della cinta muraria, guardo in su, fichi,
fichi mutilati, rami grossi da braccio giaciono per terra ai suoi piedi.
Un edificio recintato da assi di legno, sulla sua
superficie le strofe del poeta romantico annunciano ormai da anni che il verso
è eterno, il verso resta, il sospiro vola via nel vento, le lagrime sono
portate via dalla corrente, aspirate dal sole a guisa della rugiada, ma se
l’amore passa, dimmelo, donna: dove andrà mai quello?
Quest’abisso vertiginoso dappertutto, lo so senza nemmeno
un’occhiata furtiva, sento da capo a piedi quest’abisso senza fondo, questo non
è mica il vuoto, nient’affatto!, al contrario, m’attrae come un ampio nido
tiepido, mi chiama, lo sento, m’invita con una voce pastosa, m’incoraggia per
seguire, dice che non mi farà male, mi dice di non averne paura; e io andrei
volentieri, però qualcosa mi trattiene, forse quell’altra cosa che mi segue
come un’ombra, ma adesso sta ferma alla larga, osserva cosa pretendo di fare,
so che se saltassi, all’ultimo momento mi afferrerebbe, mi tratterrebbe forte, anche
per i capelli, griderebbe per riportarmi alla ragione, cos’ho combinato di
nuovo...
Giù, giù, giù, per forza giù, questa scalinata
serve per marcare il ritmo di ogni passo e mezzo, adatto ai piedi di chi la
disegnò durante il periodo saraceno o ancora prima, chissà chi era il primo a
scendere o a salire per essa, per arrivare di notte in segreto dalla sua amante;
oppure al contrario, per dileguarsi dopo averla visitata,
trappa-tr-tr-trappa-tr-tr-trappa, i miei polmoni sono così ampi da poterci stare
larga tutta questa città, mi gratta la gola, forse tanto da urlare.
Eh, dunque sono io, ma non è vero, sono io ad
andare, cammino, attraverso il ponte, di dove sono venuta. Nemmeno ora suonano
le campane, non mi aspetta nessun vigilante ad aprirmi il cancello per farmi
uscire dalle mura, verso il silenzio del prato, vado da sola lungo il recinto
dell’antica fabbrica di tappeti rasa, sospetto che la lasciata incompiuta perché i viandanti
non debbano vedere ogni giorno questa muta desolazione. Sono arrivata a casa. C’è
luce nella mia finestra quindi sono già a casa.
Il peggio era dover ritornare alla vita, non poter
affondare nel nulla nel quale ero affondata quasi nel giro di un istante per
effetto della sedazione; mi hanno bucata, lo riesco ancora a ricordare, poi,
come se una nuvola fosse discesa sulla mia fronte mentre giacevo là – ma
soltanto sulla fronte o per meglio dire sul cervello, in nessun altro punto del
mio corpo l’ho sentita, soltanto sulla fronte –, e da lì avanzava e mi entrava
nella testa, per un solo momento ho capito cosa mi stava succedendo, quindi
sono rimasta stordita, come uno a cui hanno dato l’oppio, come quando fumavo
pakistano e sentivo che mi faceva bene, e sentivo che i miei tessuti interni di
rilassavano, e in un attimo cominciavo a levitare, con i piedi che a mala pena
toccano la terra e soltanto al momento di fare il passo successivo, e questa
narcosi in cui tutto è così molle e leggero mi trasciva con sé, come se avessero imbottito il mondo
attorno a me, al punto che, se anche fossi caduta, forse non avrei sentito nemmeno
il colpo; solo le voci improvvise mi facevano tremare; ricordo una sensazione
simile, ma solo a quella che ho provato nell’attimo in cui mi hanno bucata,
quando da bambina mi hanno operata: lo ricordo perfettamente, ho fotografato
ogni istante dal momento in cui mi hanno adagiata sul tavolo operatorio, mi ci hanno
fissata con delle cinghie – erano cinghie brune, me lo ricordo; invece non
ricordo affatto di aver pianto; neppure al dolore insopportabile che seguì per giorni ricordo di aver mai ceduto:
non avevo paura di niente, probabilmente faceva lo stesso tutto ciò che
succedeva intorno a me: non protestavo, non ho nemmeno chiesto di non essere
legata con le cinghie, come se, nonostante la mia età di sei anni, per quel
breve periodo di tempo pensassi da adulta, contemplassi il lato utile di quanto
mi stava accadendo, comprendessi che quest’operazione era salvifica per me;
come se mi fossi accordata con qualcuno nell’al di là che prima di andarci
avrei avuto tante cose da fare di qua; così ho lasciato che uno di quelli intorno
a me mi mettesse la maschera eterica sul viso e mi incoraggiasse a soffiarci
dentro senza paura come se fosse un palloncino; si, doveva avermi detto proprio
qualcosa del genere, non sono proprio del certa che avesse parlato di
palloncino, ma ricordo che mi ha detto di soffiarci dentro, ed io infatti feci
molta attenzione alle mie soffiate, l’ultima anzi l’ho ancora nelle orecchie,
quella voce flebile che precede direttamente la perdita di coscienza, la posso
rivivere in qualsiasi momento dentro di me, la sento uguale, allora come adesso,
quella voce interna; allora forse ero già uscita fuori di me, solo quella voce
flebile era rimasta dentro di me a fami ricordare per il resto della mia vita
che il mio ultimo sospiro sarà identico a questo, l’ultimo sospiro con il quale
uscirò per sempre in forma di spirito dal mio corpo e mi dirigerò verso l’al di
là, sicura che qua ho finito di compiere tutti i miei doveri; adesso provo esattamente
la stessa sensazione: comincio a provarla quasi nello stesso istante in cui mi
hanno bucata; è venuto il momento di rivivere quello che ho fissato nella mia
memoria la volta scorsa, con rassegnazione, in preda al dolore, lo stesso momento
provato allora da bambina; non è proprio quella stretta al ventre che mi ha
fatto torcere il corpo come se mi avessero sventrata all’improvviso, piuttosto
un dolore sordo e lacerante di cassa, come se il cuore e i polmoni mi stessero esplodendo
all’unisono, come se i miei polmoni spingessero il cuore con vigore, sempre più
forte ad ogni respiro, quasi che non ci sia più spazio sufficiente per tutti e
due lì dentro, o semplicemente si sono stancati e non vogliono funzionare più, ed
esortano il mio cervello a fare qualcosa, altrimenti loro due si schianteranno lì
dentro per l’enorme sforzo; ma ho
anche il cervello impotente, aspetta ormai da parecchi giorni senza sapere cosa
fare; ma io sto qui immobile; il piede si muoverebbe pure, mi porterebbe avanti,
ma io guardo indietro, anzi mi volto intorno; forse sarebbe meglio andare di
là, poi invece cambio idea, titubante mi guardo intorno di nuovo, ma trovo nessun
segno nei paraggi, come se all’improvviso mi avessero paracadutata in una zona
sconosciuta, o come se fossi in un bosco dove distratta ho perso il sentiero e
all’improvviso tutto diventa uguale e io non so più dove andare; nemmeno il
sole si vede in cielo, né mi ricordo dove l’ho visto per l’ultima volta, come
se non fosse apparso per l’intera giornata, come se il cielo si fosse rannuvolato
già al momento della mia partenza; così sono cosciente che d’ora in poi dovrò lasciarmi
guidare dal mio olfatto, non ho altro punto di riferimentto che la parte muscosa
degli alberi che mi indica il nord; so che dovevo andare verso nord, ma ad un
tratto non so più neppure questo, ci sono soltanto case, la città in cui mi
trovo, e che conosco, anche se non di rado mi perdo in essa, ma almeno mi ci sono
già abituata, gli stessi vicoli; ma questa volta non provo la stessa titubanza
di quando devo decidere per dove proseguire: là non rischio nulla, se dopo un
po’ mi accorgo di andare in direzione sbagliata so che in qualsiasi momento
posso tornare indietro; inoltre parlo abbastanza bene la lingua, in qualsiasi momento
posso chiedere a qualcuno verso dove devo andare; adesso però non si tratta di
questo, il problema è che non so assolutamente cosa fare, c’è una sola cosa di
cui sono sicura, di dover sopravvivere, me ne rendo conto, ma adesso non ho la
forza di proseguire, i piedi non mi portano più, hanno detto basta, se devo
continuare a vivere che m’aiuti qualcun altro perché da sola non riesco a fare
niente, né voglio fare niente: ci pensi qualcuno altro; ora come allora so che
non poso fare nulla per far finire tutto ciò, e anche se potessi lascio passare
troppo tempo esitando sul da farsi qui in mezzo al rondò, fissando in mente
quelle poche macchine che mi sorpassano; se un giorno dovrò andar via di qua
per sempre, allora non avrò tanto tempo di fissare nella memoria i miei polmoni
e il cuore che stanno per scoppiare, potrò magari fissare per un istante quello
che ho fissato da bambina sul tavolo operatorio, solo che non avrò più nessuno con
cui condividere il ricordo: rimarrà fissato per sempre in me e uscirà dal mio
corpo come una sensazione invisibile chiusa in una bolla insieme al mio spirito
immortale per proseguire verso l’immenso, eterno e infinito nulla.
Non mi ricordo più niente. Forse camminavo per
strada, sulla corsia dove passano le macchine; forse sono rimasta svenuta per qualche
tempo, forse ho girato senza sosta come chi ha paura di uscire dal rondò perché non sa qual’è
la sua uscita, non c’è nessuna segnalazione per fargli capire quale strada
prendere, così fa un altro giro, poi un altro ancora, ma invano; nel frattempo
ha anche dimenticato da dove è entrato, così gira, gira senza sosta; sì,
anch’io stavo facendo la stessa cosa; poi dopo qualche tempo devo essere svenuta;
mi hanno detto che la gente mi osservava con angoscia dagli edifici circondanti;
qui la gente non è indifferente come lo è da noi: da noi sono capaci di passare indifferenti sopra ad un uomo caduto
per terra, qua invece si accorre subito al primo segno di sospetto, caso mai
c’è bisogno di aiuto; ma là dove mi travavo non passava nessuno; di solito nessuno
gira a piedi di sera per quel nuovo tratto di strada che esce dalla città, come se neppure gli autisti sapessero
che di là si si può uscire; così, nonostante questo tratto sia stato costruito
ormai da tempo, quasi non c’è traffico, e i pochi autisti che mi hanno superato
mentre facevo i miei giri forse non si sono nemmeno accordi ti me, oppure forse
una macchina si è fermata accanto a me nel momento in cui sono svenita, magari
il guidatore si è accorto ti me già da lontano e ha pensato che poteva
trattarsi di qualcosa di grave, così si è preparato a frenare vicino a me, per
saltare dalla macchina e forse anche prendermi al volo prima che cadessi per
terra; ma magari non è arrivato in tempo, così mi ha visto cadere leggera,
docile, perché io non ho nessuna paura di cadere; i miei muscoli e tendini sono
completamente sciolti come quelli di un ubriaco incosciente che quasi mai si
procura ferite gravi nel cadere, non si rompe la mano o la gamba, al massimo si
sbucia le ginocchia oppure la fronte se cade proprio così; e con il viso sporco
di sangue lo si potrebbe credere gravemente ferito; invece è allarmante soltanto
il suo aspetto: sul suo capo le vene corrono troppo in superficie, una ferita
frontale sanguinante lascia sempre intravedere qualche tragedia essendo molto
vistosa, l’intero volto sembra sfigurato, forse nemmeno gli occhi si vedono; io
però non ho nemmeno battuto il capo cadendo, non ho tracce di ferite sulla
testa, evidentemente sono crollata all’improvviso e quell’autista ha subito chiamato
l’ambulanza; poi sono tornata in me quando ero in ospedale per pochi momenti,
quando mi hanno iniettato il tranquillante ed ho cominciato a sentirne
l’effetto: quel formicolio che mi ha fatto capire di poter finalmente andar
via, anche se dovrò ancora tornare; l’assoluzione non varrà per sempre, tutte
le volte che lascio intendere che voglio andarmene per sempre, allora mi
somministrano un’altra iniezione per impedire che la mia decisione divenga definitiva;
in fin dei conti fanno il loro dovere di medici, mi tengono sottocchio e non mi
dimetteranno; fintanto che avranno il più lieve sospetto, non mi lascieranno
uscire di qui, continuano a farmi dormire e m’iniettano i narcotici –
non so quanto poteva durare, neppure lo chiedevo;
di una sola cosa ero sicura, di essermi svegliata, di non poter più dormire, è
finita la narcosi, sono qua; succeda quello che succeda, devo rimanere
Eri ormai morto da
quarantotto ore quando io ti credevo ancora vivo.
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